Diario ironico di chi combatte ogni giorno con la realtà (e perde con stile).

Ogni mattina la mia sveglia suona alle 5:45.
Mi bastano pochi secondi e, con un gesto veloce, senza neanche guardare lo schermo, la posticipo per altri dieci minuti.
In quei dieci lunghi e indimenticabili minuti conto a quante ore mi mancano per tornare a letto: all’incirca dodici.

Mi sveglio e inizio a prepararmi.
Apro le finestre di tutte le stanze cucina, sala, camera insomma, faccio entrare quell’aria fredda che mi risveglia e mette subito in chiaro cosa mi aspetterà dalla giornata.
Accendo le luci e mi guardo intorno un po’ spaesata, quasi estranea tra quelle mura ancora fredde e buie.
Lascio che quella sensazione esca dalla stanza e mi dirigo in bagno.

Pipì, denti, viso, crema e infine mi lego i capelli.
Mi trucco quel tanto che basta per non sembrare una sopravvissuta a una lezione di hot yoga e mi vesto.

La mattina inizia a fare un po’ freddo, ma ancora niente di preoccupante.
Chiudo le finestre, spengo le luci e un sorriso incontrollabile mi si stampa in faccia come se un abbraccio caldo e improvviso mi avvolgesse senza preavviso.
Una sorpresa, come il giorno dopo il tuo compleanno.

Mi chiudo la porta alle spalle e mi dirigo alla fermata dell’autobus.
Arriva in pochi minuti e, dopo quattro fermate, scendo.
Pochi passi ed eccomi davanti a quello che ogni mattina mi spinge davvero ad alzarmi dal letto.
Entro, e un profumo di pasta sfoglia mi inebria.

«Un cappuccino, grazie.»

Mi siedo. È il mio momento, uno dei più belli della giornata.
La città non è del tutto sveglia, e dalla grande vetrata vedo passare la gente: studenti, mamme, padri, cani e padroni.
Mentre sulla bocca mi si deposita un po’ di schiuma di latte, dal riflesso mi guardo e mi immagino mentre uno sconosciuto mi osserva e, con un dolce sorriso, mi allunga un tovagliolo, pensando a quanto quel baffo di latte mi renda deliziosa e sensuale.

All’improvviso, però, vengo bruscamente riportata sulla terra: il latte caldo del mio cappuccino mi cade addosso e mi sporca felpa e jeans.

«Mi scusi, il cane mi ha tirato! Proprio non me l’aspettavo… sa, il mio Cicci è un giocherellone.»

Non la guardo.
Mi limito a odiarla.

Mi alzo, esco dal bar e penso che, tutto sommato, manchino solo undici ore al mio sonno.
Solo temporaneo, e non ancora perenne.

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